- Chi sei?
Ho 68 anni, sono un ex-insegnante di scuola secondaria in quiescenza. Vivo a Chieri, in provincia di Torino e sono formatore e conferenziere a proposito delle tecnologie digitali nella didattica. Ho lavorato come professore a contratto per Università e Politecnico. Tengo traccia del mio percorso in www.noiosito.it. Particolarmente significativo per i temi di questa intervista è poi il mio blog, https://concetticontrastivi.org.
- A cosa assegni priorità per quello che riguarda la cosiddetta DAD – didattica a distanza?
Io credo che le priorità siano due. Da una parte, nell’immediato, ridurre i danni della mancata prossimità, come sostengo debba essere più correttamente definita la condizione materiale e relazionale in cui avevano luogo i diversi percorsi scolastici fino a un paio di mesi fa. Dall’altra, in una prospettiva di maggior respiro, costruire un linguaggio alternativo, divergente, radicalmente critico e capace pertanto di demistificare e rovesciare la prospettiva concettuale mainstream, quella che – per esempio – ha considerato e continua ostinatamente a considerare la distanza come un’opportunità per introdurre (finalmente) innovazione. Questa capacità è infatti, a mio giudizio, condizione fondamentale perché gli insegnanti e gli educatori in genere si emancipino dalla cultura attualmente egemone, di matrice liberista e tecnocratica, e recuperino invece un’autentica ed efficace capacità progettuale – individuale e collegiale – per affrontare con vera consapevolezza sia la conclusione di questo, sia l’organizzazione del prossimo anno scolastico.
Per esempio, è importante comprendere che non esiste “la” didattica a distanza, così come non esiste “la” didattica digitale. In entrambi i casi – e non è pedanteria – l’uso dell’articolo determinativo è riduttivo delle articolazioni e delle differenze che invece si hanno nella realtà dei fatti. E questo sia che si sia “pro”, sia che si sia “contro”. Per disporre di categorie utili a comprendere quanto accade in funzione di una futura progettazione, ma anche per mettere in atto una sorta di vigilanza professionale militante, ovvero attenta al compito costituzionale dell’istruzione, io credo che sia necessario individuare e rimandare al mittente ogni forma di gergo opacizzante. In questo caso dobbiamo perciò declinare i termini al plurale, perché le didattiche variano per finalità, impianti metodologici e sviluppi e, contemporaneamente, introdurre il concetto di logistica, a sua volta variabile e per ora classificata in tradizionale e digitalizzata.
- Quali prospettive individui nell’attuale situazione?
L’approccio analitico di cui ho appena parlato ci permette una distinzione fondamentale. Prima dell’emergenza sanitaria, infatti, la generalità della scuola italiana agiva in prossimità mediante:
- pratiche didattiche consolidate con logistica tradizionale;
- pratiche didattiche sperimentali con logistica digitalizzata.
Solo qualche singola unità scolastica aveva consolidato pratiche didattiche in prossimità con logistica digitalizzata e prevalenti per quantità significative di allievi.
In seguito alla chiusura degli edifici e, sia pure con tempistiche anche molto diverse, la generalità della scuola italiana ha invece dovuto mettere in atto pratiche didattiche emergenziali con logistica digitalizzata, il cui unico scopo ragionevole e praticabile, come già accennato, era e resta mitigare gli effetti negativi della distanza, grazie alle funzionalità telematiche, evitando una piena compromissione del percorso scolastico per bambin* e ragazz*. Irresponsabile e dannoso, oltre che fumoso e demagogico, invece, confondere emergenza con spinta all’innovazione, soprattutto se l’obiettivo sono l’equità e l’equilibrio dell’intero sistema nazionale di istruzione (la Scuola della Repubblica) e non il marketing del proprio singolo istituto (la scuola dell’autonomia competitiva).
Un monitoraggio serio e puntuale di quanto davvero avvenuto dovrebbe di conseguenza censire, al di là delle affermazioni, degli entusiasmi e dei timori iniziali:
– quali pratiche didattiche a logistica digitalizzata permettono un magari parziale ma effettivo ed efficace superamento della distanza;
– quale sia stato l’effettivo coinvolgimento di bambin* e ragazz*, in considerazione del fatto che perfino i più fervidi apostoli del “digitale” sans phrase hanno dovuto ammettere che è possibile che l’indisponibilità di dispositivi, connessione e ambienti domestici adeguati potesse essere fonte di (ulteriore) svantaggio socio-culturale ed educativo.
Solo la piena trasparenza su questi aspetti potrà permettere un’organizzazione del prossimo anno scolastico fondata su efficienza ed equità e quindi di immaginare di passare, come da più parti ipotizzato, a una fase di didattiche a logistica mista e/o alternata nel tempo, in parte tradizionale in parte digitalizzata, non affidate all’improvvisazione o all’applicazione di modelli mutuati dall’esterno, ma frutto di analisi e scelte consapevoli e partecipate.
- Ci sono altri presupposti necessari a una progettazione efficace e partecipata?
Sì. In primo luogo, a mio modo di vedere, va tenuto fermo che la progettazione didattica deve puntare con ancora maggior forza e precisione all’emancipazione culturale collettiva, alla cittadinanza critica, alla costruzione indipendente e dialettica di significati nella sfera pubblica, e non all’adattamento, che nel caso della secondaria di secondo grado coincide già troppo spesso nell’esaltazione della flessibilità prestazionale in funzione dell’occupabilità e nell’istruzione concepita come accumulo di capitale umano individuale. Questo è particolarmente importante dal momento che molte scuole attualmente utilizzano le piattaforme per l’istruzione fornite dai grandi player della rete internet, la cui struttura operativa è la standardizzazione della cooperazione intra-aziendale finalizzata alla competizione tra le imprese e non la condivisione finalizzata allo sviluppo umano. È quindi necessario accostarsi a questi ambienti con grande attenzione critica, per evitare di innescare fidelizzazione precoce, abituando ad attività finalizzate all’appropriazione del lavoro cognitivo dei partecipanti da parte dell’impresa.
Proprio per questa ragione, è molto importante che i percorsi fatti e le opzioni scelte siano davvero collegiali e prevedano la massima consapevolezza critica e una partecipazione attiva e consapevole di tutti coloro che sono coinvolti, senza entusiasmi tecnocratici e senza affidamenti fiduciari a pochi delegati. Ma anche senza tecno-snobismo e tecno-fobia. Paradossalmente, l’accelerazione impressa dall’emergenza sanitaria, se accuratamente presidiata e non delegata, potrebbe perfino tradursi in una crescita della consapevolezza professionale e politico-culturale da parte dei cittadini-insegnanti, perché è necessario e possibile praticare processi decisionali partecipati, collettivi, negoziati, paritari e rifiutare invece percorsi inerziali, ristretti, delegati, gerarchici.
- Quali ripercussioni per la formazione degli insegnanti?
Anche in questo caso va detto prima di tutto che non esiste un solo modello. In primo luogo perché la formazione non può essere soltanto tecnica. In assenza di senso professionale e di significato culturale, l’apprendimento dei soli aspetti funzionali si riduce rapidamente a un percorso subalterno, ad acquisizione di un’operatività meccanica e fine a se stessa, del tutto inutile – se non dannosa – ai fini della mediazione didattica. La futura formazione dovrà pertanto partire decostruendo, analizzando e classificando le esperienze fatte sul campo, in modo da individuare le pratiche che hanno raggiunto effettivamente gli obiettivi che si prefiggevano, valorizzando la didattica dell’emancipazione e prestando particolare attenzione al delicatissimo tema dell’inclusione della disabilità, da una parte, e ai percorsi vissuti dai bambini della scuola dell’infanzia e primaria, a cui la dematerializzazione telematica non può negare il “diritto psicomotorio” alla manipolazione e, in particolare, all’apprendimento della scrittura manuale, quella con strumenti che producono attrito fisico, quali penna, matite, carta e gomme. Sicuramente la soluzione dei “soli compiti” adottata da molti insegnanti delle classi della primaria non è stata risolutiva di tutti i problemi, ma ne va colto un aspetto positivo, ovvero la scelta – a fronte dell’entropia relazionale derivante dalla relazione a distanza – di non modificare le modalità di elaborazione e lo spettro di attività e di strumenti a cui i bambini erano abituati o – nel caso della prima – in cui dovevano acquisire piena dimestichezza. Anche l’insegnamento accademico dovrà ristrutturarsi in modo importante: non sarà più possibile presentare statiche rassegne di pensiero teorico – dalle ipotesi sull’impiego delle tecnologie digitali a quelle sul monitoraggio algoritmico dei processi di apprendimento e dell’uso effettivo delle piattaforme coinvolte – senza fare riferimento esplicito e dinamico alle esperienze compiute da un intero corpo sociale, oltre tutto a livello globale. Anche su questo c’è bisogno di vigilanza attiva, di cittadinanza critica. In particolare, va rivendicato che il bilancio su processi e risultati non sia affidato ai medesimi soggetti che hanno messo in campo le ipotesi e le risorse operative, che sarebbero in pieno conflitto di interesse. Questo passaggio politico-culturale deve essere indipendente, trasparente, pubblico e pertanto sottoposto a controllo parlamentare.
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