Mentre i big del Web (Google, Apple,,…) piazzano i loro prodotti nelle scuole pubbliche per offrire ai piccoli «le competenze del futuro», nella Silicon Valley e nei dintorni abitati da dirigenti del settore tecnologico sono sempre più popolari le «Waldorf Schools», che promuovono l’approccio educativo sviluppato a partire dal 1919 da Rudolf Steiner: apprendimento attraverso attività ricreative e pratiche.
Un report di Milena Gabanelli e Francesco Tortora per www.corriere.it , riassunto su Dagospia, fa il punto su una situazione nota quanto curiosa; più che gli allarmi sulla salute varrebbe la pena di approfondire le vere motivazioni di queste scuole esclusive. Puro sfizio? una semplice moda? la voglia di distinguersi di chi se lo può permettere? Forse una spiegazione esiste, anche se non piacerà a molti di noi.
Se da un lato l’obiettivo della scuola pubblica è, e rimane sempre, l’ascensore sociale; ai VIP questo non serve: chi frequenta le scuole esclusive, infatti, ha già un posto prenotato in paradiso: entrerà sicuramente om qualche consiglio di amministrazione, erediterà l’azienda di famiglia; oppure – meglio ancora! – raggiungerà i propri obiettivi indipendentemente dalle proprie competenze e conoscenze. Qualsiasi ragazz* predestinat*, infatti, sarà in grado di realizzare le proprie ambizioni limitandosi a fare squadra creativa con i compagni , i contatti e gli amici conosciuti nei contesti ricreativi delle scuole più esclusive.
A questi ragazzi non serve, quindi, aver imparato un mestiere, non serve aver studiato con dedizione tutto lo scibile umano, perché ogni loro coetaneo ha alle spalle aziende, consigli di ammnistrazione, logistica, studi professionali, banche, capitali finanziari. Possiede insomma tutto ciò che serve non soltanto per ereditare il patrimonio familiare, ma anche e soprattutto per andare ancora oltre piuttosto. Avere l’opportunità di conoscere la persona giusta al momento giusto e di fare squadra tra pari è una buona garanzia di poter un domani realizzare i propri sogni.
Questi ragazzi a scuola devono soltanto imparare a stare alla larga dalla “fattanza” e da tutte le dipendenze (il che non è facile per nessuno), per rimanere sani quanto basta per frequentare amici influenti e poter gestire correttamente quanto posseduto dalla propria cerchia privilegiata.
Ed ecco spiegata l’astinenza rigorosa di questi studenti dai social e dalle tecnologie digitali attuali che, inoltre, li metterebbero pericolosamente in contatto con plebei e cafoni di tutt’altra levatura sociale.
Molto diverso, invece, il ruolo della scuola pubblica e dei suoi studenti. A questi ragazzi, anche solo per un lavoretto mal pagato, sarà chiesto tutto e anche di più, dovranno essere più bravi, più competenti, più formati, più aggiornati, più certificati, più laureati, più masterizzati di tutti gli altri plebei (un tempo si chiamavano proletari), che sgomitano per un accesso democratico alle risorse e al ben-essere.
Ecco, allora, che il ruolo della scuola pubblica non può prescindere da una formazione aggiornata, completa, abilitante e dalle tanto temute tecnologie. digitali.
È sicuramente vero che gli studenti non sono contenitori da riempire all’ingozzo con nozioni e quindi una didattica rinnovata farebbe sicuramente bene a ragazzi sempre più distratti da un mondo pieno di stimoli dopaminici onnipresenti nello smartphone. E sarebbe anche bellissimo passare molto più tempo con i ragazzi in contesti non formali e steineriani.
Ma la scuola pubblica ha perso la bussola: rincorriamo senza tregua i defunti programmi “ministeriali” insieme alle ultime tecniche pedagogiche per gestire l’attenzione, l’inclusione, la cittadinanza e gli obiettivi minimi.
Abbiamo pure abbandonato l’apprendimento cooperativo perché ci sembrava… una ricreazione; e perché solo l’idea che un ragazzo potesse imparare da un suo pari. fare squadra e divertirsi ci mandava in corto circuito tutto il lavoro sulle certificazioni delle competenze. Insomma, abbiamo mandato in pensione anticipata proprio l’attività che più ci avvicinava alle scuole di élite e che ci poneva in un certo senso all’avanguardia.
E così, alla fine di un percorso scolastico pieno di acronimi, progetti e certificazioni, il massimo dell’inclusione che offriamo ai ragazzi è la certezza di un posto per l’ultima fila, un biglietto di viaggio scontato in terza classe.
E in questa finta inclusione, che livella verso il basso, trascuriamo gli scienziati in erba, quelli che hanno i numeri per scalare le vette più ambite, anche da soli, ma che spesso a scuola fanno domande scomode, mostrano poco interesse per i problemi banali e si sentono trascurati o incompresi.
E quindi: le tecnologie a scuola, sì o no? Certo che sì; ma a patto di essere protagonisti e autori dei dispositivi digitali che usiamo. Questa è l’unica via per la scuola della vera inclusione (quale che sia; aperta a tutt*, istituzione pubblica, ente privato, esclusiva). Senza la capacità di essere autori e protagonisti delle tecnologie siamo adatt* solo per la sala slot, e i ragazzi che già alle medie mostrano una forte dipendenza dallo smartphone sono già programmati a questo triste destino.
Per un approccio corretto alle tecnologie è utile riguardare il video di Barack Obama alla Computer Science Education Week del 2013. Discorso inclusivo e democratico, che ha fatto la storia e che ha ridato vita al coding nelle scuole di tutto il mondo.
Non limitarti a comprare un videogioco: realizzane uno.
Non scaricare l’ultima app: progettala.
Non giocare solamente con il tuo telefono: programmalo.
Crescere protagonisti del mondo in cui viviamo e delle tecnologie digitali che usiamo: non è forse questo il ruolo della scuola pubblica?
..e non permettere a nessuno di dirti che non ce la puoi fare…