Su questo sito (www.dschola.it) curo una rubrica dal titolo “INCROCIâ€? in cui mi interrogo sui punti di contatto tra le “Scienze umaneâ€? e il mondo delle Tecnologie di Informazione e di Comunicazione (altrimenti note come TIC). Raccolgo tracce, suggestioni e collaborazioni che hanno disegnato in questi ultimi anni i contorni di una “struttura che connetteâ€? e hanno messo in moto energie trasversali alle tradizionali separazioni della Scuola – e della cultura più in generale nei suoi diversi ambiti e gradi – in uno spirito “aperto”, avvicinabile all’etica “hackerâ€? nel significato originario di attitudine per la ricerca intellettuale e impegno appassionato e creativo (cfr. P. Himanen, L’etica hacker e lo spirito dell’informazione, Feltrinelli, Milano, 2001). Da non confondere con un’esaltazione acritica delle “nuoveâ€? tecnologie di comunicazione come fini a se stesse, e dunque valore aggiunto in sé, ma che rivela piuttosto il desiderio di non rinunciare a “giocareâ€? neanche – o a maggior ragione – a scuola.
E’ interessante come la filosofia dell’â€?open sourceâ€? sia stata generata proprio nel mondo delle tecnologie informatiche, rispetto al quale molti “umanistiâ€? sono stati quantomeno diffidenti. E il suo nòcciolo profondo tocca tutta la produzione intellettuale, chiamando in causa questioni di carattere etico, politico e filosofico ad ampio spettro. E’ il senso profondo di un progetto libero e condiviso che può essere raggiunto soltanto tramite gli sforzi di molte volontà convergenti. Un’ottica che, per quanto familiare alla riflessione pedagogica del Novecento – da Dewey, a Neill, a Freire, a Illich, a Don Milani -, oggi a scuola sembra sopravvivere perlopiù solo negli aspetti formali: collegi docenti, progetti inter-multi disciplinari, educazione interculturale, con-presenze e commissioni di varia natura.
Siamo in molti invece a sentire la necessità di ritagliare una pausa di riflessione condivisa, di ampliare lo sguardo e gettare “ponti sottiliâ€? fuori dalle mura del nostro angolino di mondo. Le TIC possono facilitare una comunicazione veloce, pervasiva e intergenerazionale, ma anche suggerire una prospettiva infraculturale da opporre al narcisismo della comunicazione, in un momento in cui la volontà di molti insegnanti di continuare a interrogarsi sulla costruzione di un pensiero educativo complesso rischia di appiattirsi sotto il peso dell’urgenza di riaffermare i diritti fondamentali di chi abita la Scuola – in qualità di lavoratore, studente, genitore. Il pericolo della visione lineare è in agguato: se la rivendicazione dei bisogni “primariâ€? viene considerata come preliminare alla soddisfazione di quelli di “appartenenza” – al confronto su filosofie, prospettive e obiettivi – da dove attingeremo linfa autentica per la costruzione di un’identità collettiva del “corpo insegnante”? Non è essa forse innanzitutto da cercare nella condivisione del piacere? Solo un Soggetto collettivo forte potrà infatti modificare in modo incisivo la qualità della Scuola, i cui aspetti contrattuali risultano strettamente intrecciati a quelli culturali di più ampio respiro.
Poichè insegnante precaria, oramai quasi “storicaâ€?, mi domando spesso perché non smettere di coltivare questo “vizio assurdoâ€? della scuola. A trattenermi dal desistere non è certo il trattamento economico, né tanto meno la comodità organizzativa. La mia risposta alla fine ogni anno scolastico – ossia in questi tempi – è che insegnare è il “mio lavoroâ€?. E ogni anno mi ritrovo a cercare nuove argomentazioni per riconfermare in modo non destinale (la missione, e via discorrendo…) la mia scelta. D’altronde, è pur vero che il “proprio lavoroâ€? è quello che in fondo ci si ritrova a fare e il ricorso a questa categoria rischia il circolo vizioso. Ma allora perché ostinarsi nel continuare? In che senso insegnare è il “mio lavoro”?
Dopo aver responsabilmente soppesato limiti e vantaggi, senza peraltro venirne a capo, tutti gli anni mi appare nella sua meravigliosa semplicità la medesima risposta (che ciò nondimeno esaurisce la sua energia risolutiva nel ciclo di ogni anno scolastico): il “mio lavoro” è quello che mi piace. Per altri è quello per cui hanno studiato, ma chi proviene da percorsi umanistici non ragiona in questi termini. Ma se ci facciamo togliere il piacere allora siamo fregati, e senza ritorno. Le Riforme, così come i contratti di categoria, possono costituire vere e proprie barriere, ma sono soggette a mutamenti e lasciano intravedere possibili aperture. Nei paesi del Terzo Mondo, in cui si manifesta con maggior crudeltà la repressione della personalità e i muri si toccano con mano, la resistenza culturale sopravvive e i blog stanno proliferando. L’inerzia invece si autoalimenta.
Pochi mesi fa in una discussione in classe sul tema ottimismo/pessimismo – nel corso di una compresenza sull’intercultura, che non può mancare in una scuola al “passo con i tempiâ€? – mi sono schierata nell’esiguo gruppetto degli “ottimistiâ€?, e ho aggiunto che in quanto insegnante non potrebbe essere altrimenti. Non che lo scoramento non alberghi in me, come a buon diritto in ogni cittadino di buon senso, ma quando e se mi agguanterà nel profondo mi auguro di essere in grado di fare marcia indietro, poiché la scuola non sarà più il luogo del mio lavoro. Si dibatte molto sulle cosiddette “competenzeâ€? degli insegnanti: l’ottimismo critico è a mio avviso una delle principali. E si sposa con l’attitudine a essere “sorgente apertaâ€?, e con la volontà di rimanere tale.
Chi c’è batta un colpo.
Laura Casulli
“ACQUA AZZURRA, ACQUA CHIARA”
Girando sul sito, ho visto che era ricomparsa la rubrica di Casulli con uno spazio di dibattito: mi ha fatto piacere. E questo intervento non è su “TIC e immagini in movimentoâ€?, ma sulla rubrica in generale. Ci sarà tempo per andare negli ambiti specifici.
Cara Laura, mi permetto di darti del “tu” perché sono stato un frequentatore rapsodico ma interessato di “Incroci”, dove ho trovato alcuni spunti che non esito a paragonare alla viva acqua dei torrenti di montagna: in questo senso.
Penso che la palude, pur con la sua squallida acqua stagnante, sia un ambiente, un ecosistema assolutamente rispettabile e ricco di specifiche e interessanti forme di vita – dalle ninfee ai girini, e vi sostano gli aironi: bello, no? -.
Penso che quell’ambiente possa essere paragonato a quest’altro che mi è familiare, altrettanto rispettabile e ricco di vita specifica, che hai evocato con le tue parole: “collegi docenti, progetti inter-multi disciplinari, educazione interculturale, con-presenze e commissioni di varia natura”: la dimensione burocratico-formale della scuola.
Come le rane, da insegnante mi sono adattato all’acqua della palude scolastica piuttosto bene: ciò non toglie che l’ambiente dove vivo il mio lavoro non mi piaccia, e non mi piace per lo stesso motivo per cui detesto le acque stagnanti, pur se brulicanti di forme di vita: mancano d’ossigeno, di freschezza, sono un brodo e non una linfa. Mi piace invece l’ “acqua azzurra, acqua chiara” (l'”incrocio” con Battisti mi ha colto di sorpresa…) che sgorga dalle fonti di montagna, e vorrei fare una vita un po’ più da trota, da libero salmonide e non da ranocchio.
La faccenda è grave proprio perché, come tu scrivi, “insegnare è il “mio lavoroâ€?, e il mio lavoro è quello che mi piace. Allora, se ci facciamo togliere il piacere siamo fregati, e senza ritornoâ€?.
Già …: se manca il piacere…
Il piacere di insegnare ho l’impressione che mi venga sempre più tolto, per il prevalere a scuola della dimensione burocratico-formale e per l’appiattimento nella prassi quotidiana.
Non intendo qui sostenere il concetto dell’insegnamento come “arteâ€? più o meno artigianale o istrionica: ma proprio perché penso che la programmazione (la progettazione, lo sguardo dentro il futuro) sia una cosa seria, mi arrabbio e mi intristisco quando vedo che programmiamo “tanto per” programmare, per riempire pezzi di carta o floppy disk. Muoio dentro, soffocato dall’acqua stagnante.
E per continuare a insegnare ho quindi bisogno di evadere dalla palude e andare a cercare l’acqua sorgiva, vale a dire gli stimoli non solo “tecniciâ€? (quelli, me li potrebbe dare un qualunque corso istituzionale di aggiornamento) ma soprattutto umani (anzi direi “umanisticiâ€?, nel senso più esteso del termine, e comprendendovi anche lo slancio etico e la passione estetica).
Di questi stimoli insieme tecnici e umanistici, i tuoi articoli (e tante discussioni con i tanti amici e colleghi che per fortuna mi sono vicini) sono una fonte molto ricca. Li ho letti, e io ho anche un po’ usati con i ragazzi: a proposito di TIC e di contaminazioni disciplinari.
Ma c’è qualcosa più importante ancora dei contenuti ed è quello che mi spinge a scriverti, a uscire dal guscio della fruizione anonima. Penso che effettivamente (ti cito) “la volontà e l’attitudine ad essere “sorgente apertaâ€?â€? sia un valore – che in “Incroci” tu hai praticato e “insegnatoâ€? molto bene – e che esso possa essere sì curato attraverso la pratica socratica del dialogo con le parole, ma anche lanciando messaggi in bottiglia nel mare della Rete (neanche escludendo di prendersi qualche bottigliata in testa).
E’ per questo che ho deciso di “battere un colpo� e partecipare.
Ma a che cosa?
Tu sei chiarissima, quando inviti a partecipare a una “riflessioneâ€?: termine che non è ambiguo e, se forse non invoglia e anche evoca la noia, certamente non può essere confuso con la “chiacchieraâ€? di più o meno heideggeriana memoria.
Però a me è capitato di digitare http://www.dscola.it (con una “Hâ€? in meno) invece di http://www.dschola.it. Su quel sito ho trovato un “blogdecalogoâ€? del quale non voglio parlare perché non è roba nostra, ma che mi ha lasciato sconcertato e, se lo prendessi seriamente, mi porrebbe una serie di problemi tali da farmi rientrare nel guscio; per fare un esempio riporto i primi tre punti di quel sedicente decalogo:
1. Un blog è un sistema di pubblicazione di contenuti su Internet, non il tuo diario personale chiuso a chiave nel cassetto del comodino. Tieni a mente che quello che scrivi sarà letto da altre persone.
2. Ogni unità di contenuto che pubblichi sul tuo blog si chiama post. Occorre postare con una frequenza ragionevole (un blog aggiornato una volta al mese non è divertente!), ma soprattutto scrivere qualcosa che possa interessare o divertire i tuoi lettori.
3. Ciò non significa che il tuo blog debba necessariamente essere tematico o raccogliere notizie di attualità come un giornale. La maggior parte dei blog sono costituiti di fuffa: post sugli argomenti più disparati, curiosità , aneddoti di vita vissuta, aforismi e citazioni, commenti sui fatti del giorno. A distinguere un blog ben fatto da uno che annoia sono la scelta degli argomenti e lo stile espressivo. Perché anche la fuffa, a suo modo, è un’arte.
Diciamo solo, per rimanere al punto 2 del “decalogo�, che rifiuto quelle che mi sembrano le ossessioni del blogger, come il “divertimento� o la “frequenza ragionevole� degli interventi.
Può darsi che io stia confondendo inaccettabilmente gli ambiti, e che se il luogo dove sto scrivendo è un blog mi stia invece comportando come se fosse un forum o, piuttosto, la “posta del cuore”: può darsi, insomma, che io sia fuori posto; ti chiederei quindi, Laura, delle indicazioni per poter procedere al meglio.
Un colpo lo batto io, ci sono e , nonostante la stanchezza di fine anno scolastico condivido l’amore e l’entusiasmo per il nostro lavoro, e la volontà di incrociare pensieri e persone che non si arrendono. I temi sfiorati in questo tuo blog-pensiero sono molti, seguirò con interesse future riflessioni e (spero) i numerosi commenti. Sto leggendo in questi giorni quanto hai scritto nella sezione “incroci” , alcuni argomenti mi interessano molto.
A presto
Paola
Per riconciliarvi un po’ con i blog, se volete vi segnalo questo sito interessante che parla di possibili usi dei blog in contesti educativi:
http://www.weblogg-ed.com/
Ti ringrazio Mario per la segnalazione, purtroppo io con l’inglese non me la cavo tanto bene (“l’insegnante ce l’aveva con me…”). Se qualcuno più anglofono può indicare qualche intervento in particolare mi metterò d’impegno a tradurre…
Per quanto riguarda il dilemma di Giulio sul “decalogo del buon blogger” mi permetto un esplicito commento: fregarsene è a mio avviso la cosa migliore!
Non ignoriamo, ovviamente, che il mezzo ponga vincoli ma gli umani a volte ne pongono ancor di più. Come in questo caso…..
Altrimenti ci troveremo a pensare in power point e a non riuscire a porre più attenzione a nessun intervento pubblico, a parte memorizzare le immancabili slide. Avete notato che nessuno sembra più confidare nella capacità degli umani di seguire il filo logico di un intervento in un convegno senza l’immancabile riassunto per parole chiave? E poi arriva qualcuno e sostiene che le TIC sedino la creatività e la logica…
Personalmente penso che si possa andare in tutt’altra direzione. Mi rendo conto che i miei articoli su INCROCI contraddicano molte delle regole di un buon webscrittore. Allora, chi vuole li stamperà . In effetti non sono pensati per essere letti a video. Ma ben poco si può leggere a video. Qualche anno fa ho fatto l’esperienza di un corso universitario on line: dispense microscopiche (comunque anche quelle da stampare) e altrettanto microscopici confronti tra “compagni virtuali”. Molto da decalogo. Molto deludente.
Laura
Bravi!!
State smascherando le ipocrisie che ci vengono propinate intorno alla Rete e alle TIC, e io non ne posso più di buffoni e di decaloghi…
Laura ha fatto benissimo ad andare giù duro: dobbiamo fregarcene del pensiero in power point perchè quello non è un pensiero e un pensare ma è un binario morto.
Basta!
Nicola
Nicola mi sembra arrabbiato, e credo abbia ragione: power point sta diventando “il programma” preferito nella pratica scolastica – complemento modernista della cosidetta “lezione frontale” -, ma non possiamo fregarcene: al contrario, anzi.
Anche a Laura vorrei dire che “fregarsene”, se lo interpretiamo come “lasciar scivolar via una cosa senza darle peso”, ha funzionato nel mio caso (in quanto me ne sono infischiato del decalogo e sto scrivendo), ma produce danni al sistema. Più che “fregarcene”, dovremmo riuscire a “dire di no veramente” a certe cose che non ci piacciono delle TIC, cambiando certe consuetudini.
Il linguaggio che si usa in Rete, per esempio, molte volte è gergale (dunque elitario di fatto) anche quando non serve
(cos’è la “fuffa”, di cui parlano quelli del decalogo? perché mi devo sbattere a capire una parola messa lì per autocompiacimento?):
e la comunicazione funziona male.
Esempio di cattiva comunicazione:
quando ho scritto a questo blog la prima volta, ho visto sul computer che il commento che avevo mandato doveva essere (più o meno così si diceva, senza altra spiegazione) “sottoposto ad APPROVAZIONE”.
A quel punto mi sono incazzato: ho pensato a CONTROLLI PREVENTIVI (questo mi evocava il termine “approvazione”), che ho associato al concetto di CENSURA (per l’eccessiva lunghezza del testo? per il mancato rispetto di qualche decalogo?) e quindi di PRESA IN GIRO riguardo alla tanto sbandierata libertà della Rete ecc.
Poi, la mia roba l’hanno pubblicata; e quando ho riscritto, non è comparso l’avviso di “approvazione”. Allora ho pensato (ma non ne sono sicuro, e vorrei conferme…) che il controllo preventivo non fosse sul testo bensì sull’indirizzo di posta elettronica o robe del genere. Rimane il fatto che, se mi avessero informato, non mi sarei arrabbiato.
Conclusione, e una proposta (da non prendere troppo sul serio):
poiché le cose non spiegate o dette male sono dannose
(io sono una formichina: ma se, incazzato per la faccenda dell’APPROVAZIONE, non avessi più aperto questo sito, suppongo che un infinitesimale mancato guadagno ci sarebbe stato, per il sito stesso),
“quelli dei siti” potrebbero assumere qualche insegnante di materie umanistiche (l’offerta è ampia, come si sa…) per fare l’editing e insegnare alle redazioni a comunicare meglio attraverso la scrittura…
Ciao da Giulio
Benchè il monitor sia uno strumento freddo, si intuisce la fatica e la passione di chi , come voi, ha scelto di insegnare mettendosi in gioco. Non ho la vostra esperienza, e ho ancora quella sana ingenuità che mi spinge a credere che le cose possono cambiare.
Il blog, la Rete, il linguaggio usato sono delle convenzioni stabilite dalle PERSONE che si occupano di questi temi.
La Rete è nata grazie a persone che avevano una voglia matta di comunicare, di dire la loro opinione sui temi più disparati. E’ inevitabile che in un gruppo di interesse si crei un’intesa e anche un gergo condiviso. Il buon comunicatore bada però a far sì che tutti comprendano, che tutti siano a loro agio. Quando questo non avviene la responsabilità non è dello strumento, ma è del suo utilizzatore.
I Blog sono difficili ad leggere: una persona ha tante cose da dire, tanti pensieri da esporre e finisce con scrivere una colonnina di testo fitta e fastidiosa per gli occhi di chi vuole leggere.
Io, da ex studente quale sono, vi chiedo di non arrendervi alla fuffa, di usare il blog se vi piace, oppure di abbandonarlo se non lo ritenete adatto. L’importante è che continuiate a condividere le vostre opinioni ed esperienze, l’importante è che continuiate a giocare voi stessi.
Se lo strumento che vi viene proposto non vi piace, cambiatelo, trovate strade nuove, cercate di lasciarvi sorprendere e colpire da coloro che avete intorno e dagli stimoli che vi vengono lanciati.
Come ha detto Frost: ‘Due strade trovai nel bosco, e io scelsi quella meno battuta”. Ed è per questo che sono diverso.