Pubblicato su “Internazionale” dell’8 marzo 2002
È il contrario del copyright: i prodotti copyleft possono essere copiati, modificati e redistribuiti. Ma se le buone idee portano soldi, perché c’è chi le offre gratuitamente? Per scoprirlo basta partecipare a questo esperimento
Graham Lawton, New Scientist, Gran Bretagna
Se negli ultimi mesi siete stati a una fiera informatica forse l’avete vista: una lattina color argento, con il logo di una linguetta a strappo e a fianco la scritta “opencola”. Dentro c’è una bevanda frizzante che somiglia molto alla Coca-Cola e alla Pepsi. Ma sulla lattina c’è scritto qualcosa che rende questa bevanda diversa: “Controllatene l’origine su opencola.com”. Andate alla pagina web indicata e vedrete qualcosa che non c’è sul sito della Coca-Cola o della Pepsi: la ricetta della cola. Per la prima volta nella storia potete realizzare l’originale a casa vostra.
OpenCola è il primo prodotto di consumo open source (sorgente aperta). Definendolo open source il suo fabbricante sta dicendo che le istruzioni per realizzarlo sono aperte a tutti. Chiunque può produrre la bevanda, modificarne e migliorarne la ricetta, a condizione che la nuova formula rimanga di dominio pubblico. È un modo piuttosto insolito di fare affari: la Coca-Cola non dà via i suoi preziosi segreti commerciali. Ma è proprio questo il punto. OpenCola lancia un segnale importante: una battaglia che da tempo oppone due diverse filosofie di sviluppo dei programmi informatici si è estesa al resto del mondo.
Quello che è cominciato come un dibattito tecnico sul modo migliore di correggere gli errori dei software sta diventando un dibattito politico sulla proprietà della conoscenza e su come essa è usata: da un lato c’è chi crede nella libera circolazione delle idee, dall’altro chi preferisce definirle “proprietà intellettuale”. Nessuno sa come andrà a finire. Ma in un mondo in cui cresce l’opposizione al potere delle grandi aziende, ai diritti restrittivi sulla proprietà intellettuale e alla globalizzazione, l’open source sta emergendo come una possibile alternativa, un mezzo per contrattaccare. E in questo esatto momento voi state contribuendo a verificarne la validità.
Le origini
Il movimento dell’open source è cominciato nel 1984 quando l’informatico Richard Stallman lasciò il suo lavoro al Massachusetts Institute of Technology (Mit) e fondò la Free Software Foundation (Fsf). L’obiettivo era creare software di alta qualità che fossero aperti a tutti. Stallman ce l’aveva con le aziende che proteggono i loro programmi con brevetti e copyright e ne tengono segreto il codice sorgente (il programma originale, scritto in un linguaggio informatico come il C++). Stallman considerava questa pratica dannosa: il risultato erano programmi di cattiva qualità, pieni di errori e, peggio ancora, soffocava la libera circolazione delle idee. Stallman era preoccupato del fatto che, se gli informatici non potevano più imparare dai reciproci codici, l’arte della programmazione sarebbe decaduta (New Scientist, 12 dicembre 1998, p. 42).
La mossa di Stallman ebbe vasta eco nella comunità informatica e ora ci sono migliaia di progetti simili. La stella del movimento è Linux, un sistema operativo creato all’inizio degli anni Novanta dallo studente finlandese Linus Torvalds e oggi installato su circa diciotto milioni di computer in tutto il mondo.
Quel che distingue i programmi open source dal software commerciale è il fatto che sono liberi, sia in senso politico sia in senso economico. Se volete usare un prodotto come Windows Xp o Mac Os X dovete pagare un compenso e accettare di rispettare una licenza che vi vieta di modificare o condividere il software. Se invece volete usare Linux o un altro pacchetto di programmi open source potete farlo senza pagare un centesimo, anche se diverse aziende vi venderanno il software insieme a dei servizi di assistenza. Potete anche modificare il software a piacimento, copiarlo e darlo ad altri. Questa libertà è un invito alcuni dicono una sfida agli utenti ad apportare miglioramenti. Così migliaia di persone lavorano costantemente su Linux, aggiungendo nuove caratteristiche e individuandone gli errori. I loro contributi sono esaminati da un gruppo di esperti e i migliori sono aggiunti al sistema operativo. Per i programmatori, la fama dovuta a un contributo riuscito è la migliore ricompensa. Il risultato è un sistema stabile e potente che si adatta rapidamente al cambiamento tecnologico. Linux ha un tale successo che perfino l’Ibm lo installa sui computer che vende.
I programmi open source sono coperti da uno speciale strumento legale che si chiama General Public License (Gpl). Anziché porre limiti al modo in cui il software può essere usato, come prevede la licenza informatica standard, la Gpl nota anche come copyleft garantisce quanta più libertà possibile (vedi www.fsf.org/licenses/gpl.html). I programmi coperti da Gpl o un’analoga licenza copyleft possono essere copiati, modificati e distribuiti da tutti, a patto che siano redistribuiti sotto un regime di copyleft. Questa restrizione è cruciale, perché impedisce che il materiale diventi un prodotto proprietario. Rende inoltre il software open source diverso dai programmi che sono semplicemente gratuiti. Nelle parole della Free Software Foundation, la Gpl “rende il software libero e garantisce che resti libero”.
L’open source si è dimostrato un ottimo modo di scrivere programmi informatici. Ma esprime anche una posizione politica che mette al centro la libertà di espressione, diffida del potere delle grandi aziende e non vede di buon occhio la proprietà privata della conoscenza. Secondo Eric Raymond, il guru dell’open source, è “una visione libertaria del giusto rapporto che ci dovrebbe essere tra gli individui e le istituzioni”.
Ma le aziende informatiche non sono le sole a sigillare la conoscenza e a renderla disponibile solo a chi è pronto a pagare. Ogni volta che acquistate un cd, un libro o una lattina di Coca-Cola pagate per avere accesso alla proprietà intellettuale di qualcun altro. Con i vostri soldi acquistate il diritto ad ascoltare, leggere o consumare i contenuti, ma non a rimaneggiarli o a farne delle copie e redistribuirle. Non sorprende, allora, che le persone attive nel movimento dell’open source si siano chieste se i loro metodi non funzionassero anche con altri prodotti. Finora nessuno ne è certo, ma ci stanno provando in molti.
Prendete OpenCola. Anche se inizialmente era solo uno strumento promozionale per spiegare i programmi open source, la bevanda ora vive di vita propria. L’omonima società di Toronto è diventata più nota per questa bevanda che per il software che voleva promuovere. Laird Brown, capo stratega dell’azienda, ne attribuisce il successo a una diffusa sfiducia verso le grandi multinazionali e “la natura proprietaria di quasi tutto ciò che ci circonda”. Un sito web che distribuisce il prodotto ha venduto 150mila lattine. Negli Stati Uniti gli studenti politicizzati hanno cominciato a modificare la ricetta per le loro feste.
L’industria discografica
OpenCola è un caso fortunato e non pone alcuna reale minaccia alla Coca o alla Pepsi, ma altrove qualcuno sta usando il modello dell’open source per sfidare gli interessi consolidati. Uno dei bersagli è l’industria musicale. In prima linea nell’attacco c’è l’Electronic Frontier Foundation (Eff), un gruppo di San Francisco creato per difendere le libertà civili nell’era della società digitale. Nell’aprile del 2001 l’Eff ha pubblicato un modello di copyleft chiamato Open Audio License (Oal). L’idea è permettere ai musicisti di sfruttare le proprietà della musica digitale facilità di duplicazione e distribuzione anziché combatterle. I musicisti che distribuiscono le loro canzoni sotto un regime di Oal consentono che il materiale sia copiato, eseguito, rimaneggiato e ridistribuito secondo la stessa licenza. In questo modo possono fare affidamento sulla “distribuzione virale” per essere ascoltati. “Se ci sono persone a cui queste canzoni piacciono, sosterranno l’artista per assicurare che continui a produrre musica”, dice Robin Gross dell’Eff.
È ancora presto per giudicare se l’Oal catturerà l’immaginazione così come ha fatto l’OpenCola. Ma è già chiaro che parte della forza dei programmi open source non può essere applicata alla musica. Nell’informatica l’open source permette agli utenti di migliorare i programmi eliminando gli errori e le parti del codice inefficienti, ma non è chiaro come questo possa avvenire con la musica. In realtà le canzoni non sono “open source”: i file disponibili su www.openmusicregistry.org, il sito musicale dell’Oal, finora sono tutti in formato Mp3 e Ogg-Vorbises che permettono di ascoltare la musica ma non di modificarla.
Perché un artista di successo dovrebbe mettere in circolazione le sue canzoni sotto un regime di Oal? Molti gruppi hanno protestato per come gli utenti di Napster distribuissero le canzoni a loro insaputa; perché adesso dovrebbero consentire la distribuzione senza limiti o permettere a degli estranei di armeggiare con la loro musica? Certo è improbabile che abbiate mai sentito parlare di qualcuno dei venti gruppi che hanno reso disponibile le loro canzoni sul sito web dell’Oal. È difficile sottrarsi alla conclusione che l’Open Audio è solo un’opportunità per artisti sconosciuti di farsi conoscere.
L’enciclopedia aperta
I problemi con l’open music non hanno comunque scoraggiato chi vuole provare i metodi dell’open source in altri settori. Le enciclopedie, per esempio, sembrano un buon terreno. Come i software, sono modulari e sono basate sulla collaborazione, hanno bisogno di aggiornamenti regolari e migliorano con il controllo di esperti. Ma il primo tentativo, un repertorio online chiamato Nupedia, non ha avuto grande successo. Dopo due anni sono state completate solo venticinque delle 60mila voci che aveva previsto. “Con questo ritmo non sarà mai una grande enciclopedia”, ammette il caporedattore Larry Sanger. Il problema è che gli esperti che Sanger vuole reclutare perché scrivano gli articoli hanno scarsi incentivi a partecipare: non guadagnano punti accademici come i programmatori che si dedicano ad aggiornare Linux, e d’altra parte Nupedia non può pagarli.
È un problema che riguarda la maggior parte dei prodotti open source: come invogliare la gente a contribuire? Sanger sta studiando il modo di ricavare dei soldi da Nupedia preservandone la libertà dei contenuti. I banner pubblicitari sono una possibilità, ma la sua speranza è che i professori universitari comincino a citare gli articoli di Nupedia in modo che gli autori acquisiscano crediti accademici.
C’è un’altra possibilità: confidare nella buona volontà collettiva della comunità dell’open source. Un anno fa, frustrato dai lentissimi progressi di Nupedia, Sanger ha lanciato un’altra enciclopedia: Wikipedia, dal nome del programma open source WikiWiki che permette a chiunque di modificare le pagine sul web. È un progetto molto meno formale di Nupedia: chiunque può scrivere o modificare un articolo su qualsiasi argomento, il che probabilmente spiega le voci sulla birra e su Star Trek. Ma anche il suo successo. Wikipedia contiene già 19mila articoli e ogni mese si arricchisce di migliaia di nuovi contributi. “Alla gente piace l’idea che la conoscenza possa e debba essere distribuita e sviluppata liberamente”. Sanger è convinto che con il tempo migliaia di dilettanti correggeranno gli eventuali errori e colmeranno ogni lacuna, finché Wikipedia non diventerà un’enciclopedia autorevole con centinaia di migliaia di voci.
In aiuto degli avvocati
Un altro esperimento interessante è il progetto OpenLaw del Berkman Center for Internet and Society della Harvard Law School. Gli avvocati del Berkman sono specializzati in ciberspazio, copyright, crittografia e così via, e il centro ha forti legami con l’Eff e la comunità dei programmi open source. Nel 1998 Lawrence Lessig, oggi docente alla Stanford Law School, ricevette dall’editore online Eldritch Press la richiesta di intentare una causa contro la legge statunitense sul copyright. La Eldritch prende dei libri il cui copyright è scaduto e li pubblica sul web, ma la nuova legge che estende il copyright da 50 a 70 anni dopo la morte dell’autore limitava la sua fonte di approvvigionamento di nuovo materiale. Lessig invitò gli studenti di giurisprudenza di Harvard e di altre università a contribuire a definire gli argomenti legali per contestare la nuova legge attraverso un forum online, che poi è diventato OpenLaw.
Normalmente gli studi legali scrivono gli argomenti per il dibattimento nello stesso modo in cui le aziende informatiche scrivono il codice dei loro programmi. Gli avvocati discutono un caso a porte chiuse e, anche se il prodotto finale viene reso pubblico in tribunale, le discussioni, o il “codice sorgente”, che hanno portato alla sua realizzazione restano segrete. OpenLaw costruisce invece i suoi argomenti in pubblico e li mette in circolazione coperti da copyleft. “Abbiamo usato deliberatamente come modello il software libero”, spiega Wendy Selzer, responsabile del progetto OpenLaw dopo il passaggio di Lessig a Stanford. Oggi lavorano al caso Eldritch una cinquantina di esperti e OpenLaw si occupa anche di altre cause.
“Ci sono più o meno gli stessi vantaggi dei programmi open source”, dice Selzer. “Centinaia di persone analizzano il ‘codice’ alla ricerca di errori e suggeriscono come correggerlo. Intanto qualcun altro prende una parte poco sviluppata dell’argomento, ci lavora sopra e poi la reinserisce”. Armata degli argomenti costruiti in questo modo, OpenLaw ha fatto avanzare il caso Eldritch all’inizio giudicato invincibile e adesso sta cercando di ottenere un dibattimento di fronte alla Corte suprema.
Ma ci sono degli inconvenienti. Gli argomenti sono di dominio pubblico fin dall’inizio, perciò OpenLaw in tribunale non può contare sulla sorpresa. Per lo stesso motivo non può occuparsi di cause dove la discrezione è importante. Ma se la questione è di interesse pubblico il metodo open source ha grandi vantaggi. I gruppi per i diritti dei cittadini, per esempio, hanno preso alcuni degli argomenti legali di OpenLaw e li hanno usati altrove. “I cittadini li usano nelle lettere al Congresso o li mettono sui volantini”, dice Selzer.
Il movimento per i “contenuti aperti” è ancora all’inizio ed è difficile prevedere fin dove arriverà. “Non sono sicuro che esistano altre aree dove l’open source possa funzionare”, dice Sanger. “Se ci fossero le avremmo già esplorate”. Anche Eric Raymond ha espresso dei dubbi. Nel saggio del 1997 The Cathedral and the Bazaar (La cattedrale e il bazar) ha messo in guardia dall’applicare i metodi open source ad altri prodotti. “La musica e la maggior parte dei libri non sono come i programmi informatici, perché in generale non hanno bisogno di essere corretti o aggiornati”. Senza questo bisogno i prodotti guadagnano poco dall’esame e dal rimaneggiamento di altre persone, perciò un sistema open source dà pochi benefici. “Non voglio indebolire l’argomento vincente dei programmi open source legandolo a un possibile perdente”, ha scritto Raymond.
Oggi, però, la sua posizione è leggermente cambiata. “Sono più disposto ad ammettere che un giorno potrei parlare anche di aree distinte dal software. Ma non ora. Il momento propizio sarà quando i programmi open source avranno vinto la battaglia delle idee. Raymond si aspetta che succederà intorno al 2005.
E così l’esperimento prosegue. Il contributo di New Scientist è pubblicare questo articolo in regime di copyleft. Significa che potete copiarlo, redistribuirlo, ristamparlo per intero o in parte, e in generale farne quello che vi pare, a patto che anche voi rendiate pubblica la vostra versione con un copyleft e rispettiate gli altri termini della licenza. Vi chiediamo anche di informarci di qualsiasi uso facciate di questo articolo inviando un’email a copyleft@newscientist.com.
Un motivo di questa decisione è che così facendo possiamo stampare la ricetta dell’OpenCola senza violarne il copyleft. Se non altro questo dimostra la capacità del copyleft di diffondersi. Ma c’è anche un altro motivo: vedere quel che succede. Che io sappia questo è il primo articolo di giornale pubblicato con un copyleft. Chissà quale sarà il risultato. Forse l’articolo scomparirà senza aver lasciato alcuna traccia. Forse sarà fotocopiato, ridistribuito, rieditato, riscritto, copiato su pagine web, volantini e articoli in tutto il mondo. Non lo so, ma non è questo il punto: la questione non è più di mia competenza. La decisione adesso sta a tutti noi.
Il “codice sorgente” di questo articolo e i dettagli sulle condizioni del copyleft sono alla pagina www.newscientist.com/hottopics/copyleft Pubblicato su: