Pubblicato su la Repubblica edizione di Torino lunedi 8 aprile 2002
A Torino 42 imprese su cento, secondo le ultime rilevazioni dell’osservatorio del lavoro dell’Unione Industriale, denunciano la difficoltà di reperire sul mercato manodopera specializzata. Qualcuno prova a tradurre questa percentuale in cifre assolute e ipotizza la mancanza di oltre 20 mila operai qualificati. Si può discutere sui numeri ma il problema esiste e nessuno si sognerebbe di metterlo in dubbio.
Comunque sia questo fenomeno indica l’esistenza di un’anomalia che da un lato segnala i primi effetti di una ripresa dell’economia e dall’altro lato mette in evidenza un cattivo del meccanismo domandaofferta di lavoro. L’una e l’altro derivanti da una progressiva trasformazione dell’industria torinese in atto da qualche tempo.
Che cosa sta accadendo nel Nord Ovest? Gli osservatori più attenti azzardano qualche spiegazione e parlano di una crescente disaffezione dei giovani nei confronti della fabbrica. Essi sostengono che molti ragazzi, tra i tanti che abbandonano prematuramente la scuola, oggi preferiscono un lavoro di cameriere, barista, call center, pony express, piuttosto che un impiego in un’azienda metalmeccanica o chimica. In non pochi casi questa scelta comporta un guadagno inferiore che però viene accettato pur di sfuggire a quella che è vista come la maledizione della fabbrica, cioè la «condanna» che i padri hanno descritto ai figli a tinte fosche e che oggi questi fanno di tutto per evitare.
La fabbrica ha perduto dunque la capacità di attrazione che esercitava un tempo. È venuta meno la cultura della Chiave a stella di un personaggio torinese a tutto tondo descritto magistralmente da Primo Levi. La fabbrica è demonizzata forse per la semplice ragione che la chiusura di un bar non ha mai fatto notizia mentre quella di un’azienda, ancorché di piccole dimensioni, viene sempre vissuta come un fatto traumatico. Un posto di barista si trova sempre quello di operaio è un po’ più problematico. E così s’imbocca la scorciatoia del lavoro pseudopulito, inseguendo un’occupazione che tra le sue caratteristiche non ha di sicuro la stabilità.
Colpa delle famiglie? Può darsi. Ma anche la scuola ci mette del suo, con quella che si potrebbe definire una cattiva comunicazione ovvero l’incapacità di spiegare in modo serio e credibile che cosa vuol dire andare a lavorare in fabbrica con un ruolo ben definito supportato da una preparazione adeguata in grado di incontrare la domanda che viene dalle aziende.
Pubblicato su la Repubblica – ed. Torino – Lunedi 8 aprile 2002Pubblicato su: