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Io se fossi Dio…

Anche quest’anno ho introdotto il corso di “Filosofiaâ€? con la visione di “Matrixâ€?. C’è dentro tutto, in una sorta di déjà  vu visivo (che peraltro nel mondo di “Matrixâ€? è sintomo di un’imperfezione nel programma stesso di simulazione della realtà ): dal sacrificio di Socrate al mito della caverna di Platone, dalla meraviglia aristotelica al dubbio cartesiano sulla realtà , dalla distinzione tra realtà  ed apparenza in Kant e Schopenhauer al nietzschiano amor fati, dallo Zen alla rivoluzione marxista, dalla Bibbia allo spaesamento di Alice, fino alle neuroscienze contemporanee. Attraverso la tematizzazione del rapporto reale/virtuale, necessità /libertà , fisico/metafisico, mente/corpo, ragione/emozione, spazio/tempo, dell’Amore come via verso l’Assoluto, del problema della verità , della felicità , della natura dell’uomo, della tecnica, della conoscenza (e molto altro ancora, che si può trarre ad esempio dalla recente pubblicazione italiana “Dentro la matriceâ€? e da molte altre iniziative di carattere europeo). Ma, soprattutto, la centralità  della Domanda.
“Matrixâ€?, però, piace agli studenti perché si tratta di un epico videogame postindustriale – che pertanto appartiene a quel mondo effimero dell’immagine e della simulazione che vorrebbe stigmatizzare – e sprigiona, ovviamente, un appeal con il quale la Scuola difficilmente può competere. Un decisivo spartiacque generazionale separa infatti da secoli di filosofia scritta e tramandata questi studenti, cresciuti nella disinvolta abitudine a gestire la possibilità  umana di “creazioneâ€?, l’ambiziosa opzione di scelta “diventa Dioâ€?, che non a caso ha fatto pubblicamente capolino proprio nelle storie spaziali e marziali dei videogiochi.
Seguendo le tracce dell’etimologia di quel “logosâ€? di greca memoria – utilizzato da Omero con il significato di “raccogliereâ€? e poi tramandato come “parolaâ€? e “pensieroâ€? – viene allora da chiedersi: come può la Scuola raccogliere e strutturare il pensiero e il linguaggio delle nuove generazioni?
Intanto, sentendosi meno estranea. Ricordando che ciò che si trova nella nostra interiorità  ha le stesse sembianze del virtuale, parla il suo stesso linguaggio, possiede la stessa mimica. D’altronde, sogni, illusioni, desideri, fantasie, profumi, colori, confini, suoni, specchi, non fanno parte anch’essi di una realtà  immateriale e ludica che ci accomuna tutti?
Quando però si tratta di bambini della Scuola Elementare, o addirittura di quella dell’Infanzia, gli schieramenti tra “apocalitticiâ€? e “integratiâ€? si fanno più rigidi. Gli uni mettono in guardia dagli insidiosi effetti del mondo virtuale, gli altri ne scorgono potenzialità  significative dal punto di vista didattico-formativo al fine di estendere l’apprendimento esperienziale oltre i tradizionali confini percettivo-motori. Attraverso la creazione di “micromondiâ€? digitali si scorge la possibilità  di realizzare percorsi significativi, consapevoli, “sintoniciâ€?, centrati sugli studenti. Un videogiocatore competente è considerato come una sorta di “programmatoreâ€? che impara dai propri errori per aggiustamenti continui, che agisce non solo sugli oggetti ma sui loro rapporti, che sviluppa il proprio pensiero attraverso problemi, in termini di relazioni, attento alle dinamiche del cambiamento e con una propensione al ragionamento abduttivo, ecologico, sistemico.
In entrambi i casi, però, nemico comune è “il tecnocentrismoâ€?. Nei primi anni Novanta, lo stesso Papert – che insieme a Minsky fondò il Laboratorio di Intelligenza Artificiale del Mit di Boston al quale si deve quel memorabile “Logoâ€? che entrò nella Scuola Elementare con i “Commodore 64â€?- così commentava con amarezza la mancata rivoluzione pedagogica in cui aveva sperato: “A poco a poco, le caratteristiche sovversive del computer vennero scalzate; invece di superare le barriere tra le materie, e di mettere in discussione il concetto stesso di separazione, il computer finì col diventare una nuova materia, invece di spostare l’accento da un programma impersonale alla ricerca attiva e entusiasta degli studenti, il computer servì a rafforzare i tradizionali metodi scolastici…â€?.
A proposito di “Laboratori di Informaticaâ€? e dell’introduzione, nella Scuola della Riforma, dell’â€?Informaticaâ€? come disciplina (“Indireâ€? e “Raiâ€? hanno tra l’altro coprogettato oltre al “Divertingleseâ€? anche il “DivertiPcâ€? per bambini fino a 11 anni, genitori e docenti), questo mese sempre in “Incrociâ€? mi sono occupata per l’appunto del rapporto tra TIC e Scuola Elementare e dell’Infanzia attraverso videogames e micromondi, al di là  di problemi strutturali e tecnici. Perché, in un certo senso, ha ragione “Matrixâ€?: “il cucchiaio non esisteâ€?. E se il “siero della verità â€? non funziona, forse la Domanda è sbagliata.

Laura

1 commento su “Io se fossi Dio…”
  1. Concordo sulla considerazione che la visione tecnocentrica abbia fortemente limitato le potenzialità  che le TIC offorono nello sviluppo della didattica tradizionale e non solo con i più piccoli.

    Mi occupo di FAD – ho visto che “Incroci” contiene numerosi e interessnti articoli sull’argomento firmati da te – un settore in cui forse questa visione, pian piano comincia a cedere il passo a un approccio dove il focus si sposta sul discente e sui suoi processi di apprendimento.

    Segnalo in proposto seminario di Guglielmo Trentin disponibile all’indirizzo
    http://hal9000.cisi.unito.it/seminariE-learning04-05/fare.htm
    che credo possa offrire interessanti spunti di riflessione a chi insegna.

    Gibba

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