Tra le varie notizie emergenziali, olimpiche, vacanziere, no-caicose, è spuntata quella che certifica definitivamente il fallimento della Torino industriale, disoccupazione e povertà a livelli record. Per chi lavora nelle scuole torinesi e piemontesi, questa affermazione non è certamente una novità assoluta; ma leggerla fa tutto un altro effetto:
Torino in crisi da 15 anni. O aiuti dal governo o l’industria verrà spazzata via
Premesso che le città del sud sono bellissime – e come qualità della vita anche molto meglio di Torino – si parla finalmente di un “faro” del governo sul capoluogo piemontese, magari con la speranza di far tornare a splendere quella che già dal 1675 veniva chiamata la “Ville Lumiere“.
A noi che viviamo la scuola e abbiamo la responsabilità di preparare i giovani al futuro, qualunque esso sia, che ci piaccia o no, sia consentita una riflessione più ampia.
La vocazione industriale di Torino è la nostra storia degli ultimi 150 anni. E il successo industriale, più che al genio dei singoli, alla nobiltà facoltosa, al vino buono e alle passeggiate sulla collina, è dovuto quasi esclusivamente allo spirito di sacrificio dei Torinesi: I Monsù Travet – sia autoctoni sia di importazione – sempre pronti a immolarsi per un bene superiore.
Prima ancora dell’arrivo delle industrie. Torino era una spianata di monasteri e caserme, abitata da una moltitudine votata al sacrificio, all’impegno e al bene comune, pronta a sacrificare la propria vita per difendere il Regno, per respingere gli invasori e per unificare l’Italia intera. E così hanno fatto. Perfino Napoleone, invadendo Torino, si dovette accorgere dello stile dimesso della città.
A Torino abbiamo un Understatement tipicamente sabaudo – Esageruma Nen – che ancora oggi si percepisce chiaramente, un freno a mano sempre tirato che spegne sul nascere tutti gli entusiasmi e i sogni dei nostri giovani non dotati di pedigree.
Ma il declino di Torino non è certamente dovuto allo spirito di sacrificio, che è stato piuttosto il terreno fertile che ha attirato nei secoli industriali e capitalisti di ogni tipo: “A Torino lavorano sodo, per il bene dell’azienda e talvolta anche per poco…”.
Non dimentichiamoci, piuttosto, che proprio Torino ha una storia tutta sua di lotta e contrasto alla povertà, allo sfruttamento e infine al capitalismo: i Santi Sociali (Don Bosco, Cottolengo, Allamano, Faà di Bruno, Murialdo, Frassati…), gli imprenditori filantropi come Leumann, i sindacati e loro storiche durissime battaglie, preti operai, sindaci da sempre rigorosamente schierati a sinistra, manifestazioni di piazza che sono passate alla storia, centri sociali, antagonismo, e così via. Non per caso, inoltre, i comuni della prima cintura di Torino (Collegno, Grugliasco, Orbassano) sono soprannominati le Stalingrado/Leningrado del Piemonte, in considerazione della storica collocazione a sinistra delle loro giunte amministrative.
Insomma, un terreno certamente non facile per chi vuole “fare impresa”, sia per gli industriali “buoni” che magari non sfruttano, sia per le multinazionali, da sempre additate come avide e cattive.
Quindi è almeno 100 anni – e non certo 15 – che a Torino si combatte un’epica battaglia contro il capitalismo e, in un certo senso, contro il tessuto industriale.
Prima o poi qualcosa doveva pur succedere…
E adesso che i capitalisti cattivi e sfruttatori sono in ritirata? Cosa diciamo ai nostri studenti? Che i Travet e i Taron hanno vinto insieme la più epica di tutte le battaglie e sono finalmente liberi?
O non è che a forza di politiche poco sensibili alla libera iniziativa e all’impresa stanno sparendo anche le industrie buone? E i piccoli imprenditori che fine hanno fatto?
E tutti i negozi e i locali chiusi riapriranno mai? Che fine hanno fatto i commercianti in genere? Sembrano in ritirata perfino i francesi, che tanto ci tenevano a Torino, proprio oggi che avevano conquistato la “fiat”.
Insomma, Torino ha vinto o ha perso la battaglia? E i nostri ragazzi dove andranno a lavorare?
Anche a scuola dovremmo cambiare prospettive: se li formiamo per un rapido inserimento nelle aziende – ammesso che ne siamo veramente capaci – con lo stile del classico Travet, dovremmo evitare di aggiungere che però il capitalismo è cattivo e che le aziende li sfruttano. Altrimenti questi ragazzi – giustamente – non accetteranno mai un lavoro. Se invece diciamo che la pacchia è finita e che le aziende non ci sono più causiamo loro un male ancora peggiore: rubiamo i sogni e li condanniamo a un futuro da NEET.
E allora cosa fare? Cosa Dire?
Che il terreno è finalmente sgombro, che le aziende che sfruttavano sono scappate altrove e che quelle che non ce la facevano più hanno chiuso, tra mille sofferenze, incomprensioni, difficoltà e lontananza della politica politicante, sia ben chiaro!
Che quindi tocca proprio ai nostri ragazzi di oggi creare le nuove imprese, quelle etiche, quelle eco-friendly, quelle che innovano e non sfruttano, quelle che usano davvero bene le tecnologie, quelle che inseguono i sogni e che pensano che tutto sia possibile.
Quelle dove gli unici No! sono “No Understatement” e – soprattutto – “No Esageruma Nen”. Sperando che le amministrazioni locali diano fiducia, molta, ai ragazzi e non tentino per l’ennesima volta di inseguire ideologie retrograde, o ancora peggio di recuperare industriali stanchi e banche avide, erogando inutili agevolazioni di Stato a matusa fuori tempo massimo.
In un giorno si può lanciare un’ impresa, si può aprire una partita IVA start-up con tassazione agevolata per 5 anni, senza finire nelle grinfie di un incubatore.
Anche fare le fatture elettroniche è semplicissimo, mentre partecipare ai bandi è certamente più complicato. In tutti i casi, possiamo certamente aiutarli, tanto più che con lo smart working ci sono moltissime nuove possibilità di lavorare e di studiare. ma anche per collaborare con altre persone in giro per il mondo.
Troppo spesso li prepariamo solo a fare i Travet, anche se con il Curriculum Vitae et Studiorun in Word…
Torino è cambiata, è ora di cambiare.