Le origini del personal computer

Pubblicato su Le Scienze aprile 2002

Non sono pochi a credere che, circa un quarto di secolo fa, una banda di “tecno-giovanotti” dai nomi oggi famosi, come Gates, Jobs e Wozniak, cominciò a giocherellare nel tempo libero con la nuova tecnologia dei microprocessori e, quasi per caso, finì per dare inizio alla rivoluzione dei personal computer.
In realtà la storia del PC non inizia con questi giovani imprenditori. Dopo tutto, ciò che innescò la rivoluzione dei PC non furono né l’hardware né il software in quanto tali, ma il messaggio che questi prodotti incarnavano: i computer non erano più enormi, minacciose macchine ma potevano essere vicini all’uomo, capaci di risponderci e di aiutarci in quanto individui.

I computer potevano potenziare la creatività umana, rendere più democratico l’accesso all’informazione, promuovere comunità più ampie e dare vita a un nuovo strumento globale per la comunicazione e il commercio.
L’elaboratore elettronico così come oggi lo conosciamo sarebbe inconcepibile senza il concetto assai più elementare di interazione fra uomo e computer. Certamente questa non era un’idea ovvia agli albori dell’informatica, quando i computer erano ancora considerati poco più che macchine da calcolo superveloci. Dai primi calcolatori digitali, sviluppati alla fine della seconda guerra mondiale, fino alla prima fase dell’informatizzazione delle imprese agli inizi degli anni sessanta, pressoché tutti i computer venivano progettati per “sgobbare” sulla soluzione di un problema fino a trovare una risposta.
Fin dall’inizio, però, vi fu un’eccezione alla regola: Whirlwind, un computer sperimentale realizzato al Massachusetts Institute of Technology. Il progetto era iniziato nel 1944 per costruire non un computer ma un simulatore di volo: una macchina per la quale non esisteva mai una “risposta”, ma soltanto una sequenza mutevole di azioni del pilota e reazioni simulate dell’aereo.


M. Mitchell Waldrop
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